di
Giulia Paradisi
Che cosa è l’autostima?
Spesso nei problemi delle persone con cui ci troviamo a lavorare in terapia è coinvolto il concetto di autostima, che nel corso degli anni, numerosi autori, hanno approfondito e cercato di definire.
Uno dei più conosciuti in questo ambito è William James, il quale definisce l’autostima come il rapporto tra il Sé percepito di una persona e il suo Sé ideale. Il primo equivale alla conoscenza di sé in termini di qualità, caratteristiche e abilità (che possono essere presenti o assenti), mentre il secondo rappresenta l’immagine di ciò che si vorrebbe essere e a cui si aspira. L’autostima sarebbe quindi il risultato della valutazione globale che noi facciamo di noi stessi, frutto del confronto tra stato percepito e stato ideale.
Secondo James un soggetto sperimenta una bassa autostima quando la percezione che ha di se stesso non raggiunge il livello dell’ideale al quale aspira e, più la distanza tra i due è grande, maggiori saranno l’insoddisfazione e la frustrazione percepite. Si può quindi affermare che l’autostima derivi dal confronto tra i successi ottenuti e le corrispondenti aspettative.
Possedere un’alta autostima, al contrario, è il risultato di una limitata differenza tra il sé reale e il sé ideale. Battistelli definisce l’autostima come l’insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso (1994).
L’autostima rappresenta un bisogno fondamentale per gli esseri umani e, se bassa, è probabile che il soggetto si aspetti sistematicamente rifiuto, non amabilità o disprezzo da parte delle altre persone, fino ad andare incontro a difficoltà interpersonali.
Nel caso in cui una persona si percepisca di scarso valore, così come quando incontra difficoltà di altro genere, mette in atto condotte volte a compensare la discrepanza tra ciò che è e ciò che desidererebbe essere.
Quali sono alcuni dei modi in cui l’individuo cerca di ottenere un po’ di autostima?
Talvolta i soggetti che sperimentano scarsa autostima pensano di dover assolutamente piacere agli altri (ad esempio ai genitori o, in generale, alle persone amate) per poter piacere a se stessi. L’investimento nel cercare di piacere agli altri si estende, nei casi più gravi, a tutto il mondo, ovvero la persona esaspera talmente tanto il bisogno di essere validato dall’esterno che potrebbe richiedere attenzione, accettazione, amore, ammirazione da qualunque persona con la quale si trova ad interagire. Spesso persone con queste caratteristiche sviluppano delle dipendenze affettive, oppure si trovano a soffrire a lungo fino a deprimersi a seguito della rottura di legami sentimentali dai quali attingevano la loro principale fonte di autostima. In altri casi si può sperimentare vergogna e sofferenza intense in conseguenza ad eventi in cui non si è stati riconosciuti “bravi”, “adeguati” o, addirittura si è stati rimproverati o valutati negativamente (un esame andato male, una critica sul lavoro, ecc). Altre volte invece la persona può vivere in uno stato costante d’ansia, in cui c’è sempre un’attenzione selettiva a non dispiacere gli altri o a renderli orgogliosi di se stessi, oppure una ricerca esasperata di feedback positivi tramite comportamenti di passività o di compiacenza (anassertività, disponibilità incondizionata, estrema gentilezza, ecc). Non di rado sono persone con alto perfezionismo, critiche e severe con se stesse: nessun errore è contemplato poiché potrebbe innescare giudizi negativi da parte degli altri, quindi si cerca di rendere le proprie performance impeccabili ed essere sempre “perfetti” (es. perfezionismo sul lavoro, controlli ripetuti per scongiurare di aver dimenticato di fare qualcosa, cercare di rendersi impeccabili fisicamente ed esteticamente, ecc).
Molte di queste persone che richiedono aiuto si lamentano del fatto che, per essere sempre “state dietro agli altri, mettendo se stesse al secondo posto”, non hanno una vita propria, nessun interesse, hobby, attività che in qualche modo le motivino, non hanno pensato ad una loro progettualità e, in alcuni casi, si sentono delle nullità. Hanno spesso ragionato in questi termini: “Che senso ha la vita se non piaci a nessuno e non sei importante per qualcuno? Per cosa vale la pena vivere altrimenti?”.
In altri casi, invece, le persone con bassa autostima tentano di abbassare l’altro per alzare se stessi (umiliare, mettere in soggezione, utilizzo del potere e della prevaricazione, ecc). Alcuni di questi individui appaiono agli altri egoisti, insensibili, sfruttatori e manipolatori, alla continua ricerca di potere e gloria di personale, talvolta sono persone che agiscono senza curarsi della necessità di cooperare e contribuire al buon funzionamento della comunità di appartenenza, fino ad arrivare alla messa in atto di comportamenti illeciti, alla violazione di diritti e sentimenti altrui. Questo rappresenta in generale l’altra faccia della medaglia del percepirsi di scarso valore: per il medesimo timore di fallire, queste persone possono scegliere di evitare situazioni che possano metterle a rischio e quindi potrebbero accontentarsi di apparire piuttosto che cercare di essere realmente competenti o capaci rispetto ad una specifica funzione.
Affrontare una psicoterapia nei casi di scarsa autostima può rappresentare una preziosa occasione per liberarsi da difficoltà che spesso si sono venute creare nel passato di un individuo, nella sua storia di vita, e che possono averlo condizionato a pensare certe cose di sé, a cercare di superare i problemi derivanti da una percezione negativa di se stesso. Queste modalità personali di fronteggiamento del problema però, di frequente sono rappresentate da comportamenti disfunzionali che, anziché aiutare la persona, gli complicano ulteriormente la vita e la portano a soffrire intensamente. La terapia cognitiva si offre come un valido aiuto a persone con questo tipo di problematiche ed ha come scopo principale la risoluzione di impasse contingenti, talvolta anche pratiche, che l’individuo si trova a dover affrontare e gestire, spesso con risorse personali insufficienti. Il terapeuta cognitivo si pone l’obiettivo di lavorare e collaborare attivamente con il paziente che richiede questo tipo di aiuto, cercando di arrivare ad una comprensione del problema più profonda, tentando di stabilire i nessi tra comportamenti, emozioni, pensieri e conseguenze, nei quali risiede la sofferenza soggettiva ed, infine, lavorando su strategie e modi di pensare differenti da quelli che hanno sempre accompagnato la persona.
Per saperne di più sull’argomento
Battistelli P. (1994), “Autostima”, in S. Bonino (a cura di), Dizionario di Psicologia dello Sviluppo, Torino: Einaudi.
James, W. (1890), Principle of psychology. New York: Holt, Rinehart & Winston.