“Combattere i mulini a vento fa più male a te che ai mulini”
(Robert A. Heinlein)
La sofferenza psicologica è un’esperienza comune a ciascun essere umano, e rappresenta un qualcosa che è difficile da eliminare dall’esistenza stessa di ognuno di noi.
Molto spesso la sofferenza deriva dall’incapacità di saper accettare la propria condizione esistenziale o più “semplicemente” un certo aspetto o evento della vita (es. la perdita del lavoro, un lutto, una malattia). In termini più tecnici, la sofferenza deriva dalla frustrazione di uno scopo, di uno stato o di una condizione alla quale si desidera arrivare, ma per qualche motivo non ci è possibile perché ormai lo scopo è compromesso o irraggiungibile.
A volte per diminuire lo stato di sofferenza possiamo solo abbassare il valore dello scopo compromesso, o rinunciarvi completamente, e sostituirlo con uno ancora perseguibile, accettare la condizione che ci crea sofferenza, ma soprattutto accettare la sofferenza stessa.
Accettare in questo senso significa quindi sospendere ogni attività finalizzata al raggiungimento di uno scopo non più realizzabile (es. riavere in vita la persona cara defunta), al fine di evitare uno spreco inutile di risorse e di energie, che possono essere invece reindirizzate al raggiungimento di scopi ancora perseguibili. Ciò non significa smettere di soffrire per la condizione che ci fa star male (es. essere tetraplegico), ma riuscire a vivere una nuova vita in virtù di quello che sono e che ho adesso.
Nell’immaginario comune il termine accettazione assume spesso una connotazione negativa, soprattutto quando si parla di accettazione di una cosa non piacevole (es. una malattia), quasi a stare a significare una sorta di rassegnazione, di acquisizione di un atteggiamento passivo e di resa nei confronti di ciò che ci è capitato e delle esperienze interne che ne sono conseguite.
In realtà accettare significa attivare un processo di consapevolezza rispetto alle esperienze esterne ed interne che ci fanno soffrire e che in qualche modo ci fanno restare fermi, che non ci fanno intraprendere un cammino volto al riconoscimento dell’inutilità di rimanere immobili e di disperarsi per la triste sorte che ci è capitata o per le ingiustizie che la vita ci ha riservato, invece di iniziare un passo dopo l’altro a riconoscere e valorizzare gli aspetti positivi di cosa sono adesso, diverso sì da come ero, ma pur sempre io, persona che merita un po’ di serenità.
Accettare significa smettere di lottare contro i mulini a vento, smettere di combattere chi o cosa non possiamo combattere (la sorte avversa, la morte), smettere di sperperare risorse ma indirizzarle verso scopi realistici, diversi da quelli che volevo raggiungere, ma pur sempre scopi ai quali tendere e ai quali possiamo ugualmente “voler bene” (niente e nessuno mi riporterà indietro il caro estinto, ma posso fare in modo di conservare il suo ricordo per me e per gli altri o portare avanti attività che gli avrebbero fatto piacere; forse non posso cambiare ciò che è stato, ma posso provare a controllare ciò che sarà il mio futuro).
Accettare significa quindi sospendere inutili pratiche volte a modificare l’immodificabile e attuarne di nuove alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Alla fine di questo processo dovrò arrivare a prendere atto di un fatto, immodificabile, al quale va tolta la connotazione di problema, quindi qualcosa da risolvere, ma che va trattato come un evento, un qualcosa che è successo e con il quale dobbiamo imparare a convivere, e imparare ad adattarsi alla nuova condizione. Questo processo riguarda quindi, in altre parole, la modificazione del nostro schema di valori e di alcune credenze che credevamo cardini fondamentali della nostra esistenza.
Ma come si fa ad avviare questo processo?
Quali interventi possono portare all’accettazione della perdita di uno scopo al quale tenevo e che ora non posso più ottenere? Come possiamo alleviare la sofferenza di chi pensa che la propria esistenza sia totalmente compromessa?
Come suggeriscono Perdighe e Mancini (2012) “Favorire l’accettazione significa far passare dallo stato mentale di insistenza alla rinuncia, modificando i fattori che regolano l’investimento: si tratta innanzitutto di indebolire i processi di mantenimento dell’investimento (in particolare con interventi di ricostruzione, normalizzazione e riduzione dell’attitudine a secondari) e poi di modificare le credenze che sostengono l’investimento e ostacolano l’accettazione”.
In altre parole, si può intervenire innanzitutto mettendo in atto processi di normalizzazione rispetto alla propria sofferenza e alla propria reazione alla sofferenza stessa, essere cioè più accoglienti ma anche più tolleranti rispetto alle proprie reazioni ed emozioni; successivamente si può cercare di individuare e interrompere i circoli viziosi che in qualche modo auto-alimentano la sofferenza, perché magari ci fanno andare alla ricerca di tentativi di soluzione laddove una soluzione a quel fatto non esiste (es. posso ragionare all’infinito su cosa avrei potuto fare per evitare che mio figlio facesse quell’incidente che gli è stato fatale, ma in realtà niente di quello che penso o faccio mi potrà far ottenere quello che voglio, ossia il ritorno in vita di mio figlio) e ciò non porta e non potrà mai portare né sollievo né benessere.
In questo ambito rientra anche l’intervento mirato a riconoscere che niente è più in mio potere per modificare un dato evento, nessun impegno o nessuna cosa che farò potrà cambiare eventi immodificabili: posso solo andare avanti, e quindi cercare di capire quali sono i modi possibili per poterlo fare.
Infine, interventi utili al fine di favorire accettazione e il successivo benessere sono la “de-catastrofizzazione” dello scopo perduto (cercare di abbassare il valore di quello che ho perso, e alzare il valore di quello che ancora ho) e la sua successiva ridefinizione, ma anche il favorire il confronto con persone accumunati dallo stesso destino (es. altre persone alle quali è morto un figlio), al fine di aumentare la consapevolezza che a tutti può capitare e che il senso di ingiustizia riguardo alla triste sorte capitata è comune ad altri.
“Impara ad accettare. Non vuol dire rassegnarsi, ma semplicemente non perdere energia dietro a situazioni che non puoi cambiare, remando contro alla serenità della tua giornata” (Dalai Lama)
(Pamela Calussi)
Per saperne di più:
Bulli, F., Melli, G. (a cura di) (2010). Mindfulness & Acceptance in Psicoterapia. Ed. Eclipsi
Harris, R. (2010). La Trappola della Felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Ed. Erikson.
Perdighe, C., Mancini, F. (2010). Il lutto: dai miti agli interventi di facilitazione dell’accettazione. Psicobiettivo.
Perdighe, C., Mancini, F. (2012). Dall’investimento alla rinuncia: favorire l’accettazione in Psicoterapia. Cognitivismo Clinico, 2, 116-134.
2 thoughts on “…E NON CI RESTA CHE ACCETTARE”-
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