di
Niccolò Varrucciu
A discapito della sua gravità, solo recentemente l’epilessia è stata considerata una malattia che necessita di un trattamento. Prima della fine del XX secolo le crisi epilettiche erano considerate da alcuni addirittura come una speciale forma di benedizione.
Molti personaggi religiosi, come Giovanna d Arco, avevano visioni spesso scambiate come messaggi da parte di Dio e solo in seguito, con l’avvento sofisticate tecniche d’indagine, è stato chiarito il ruolo delle crisi epilettiche nella formazione di tali visioni (Carrazana, DeToledo, Tatum, Rivas-Vasquez, Rey e Wheeler, 1999).
Questo clima all’insegna delle arti divinatorie si è esaurito verso l’inizio del 1900, quando l’epilessia è stata introdotta nel novero delle malattie ufficialmente riconosciute e alcuni farmaci identificati come trattamento di prima scelta.
Nonostante i grandi passi avanti compiuti in questo ambito e i benefici arrecati a questi pazienti, circa 1/3 degli individui diagnosticati come epilettici sviluppano forme refrattarie o farmacoresistenti, dove si perdono completamente i benefici a fronte della permanenza degli effetti indesiderati (Cull & Goldstein, 1997; Wallace & Farell, 2004).
Secondo il tradizionale approccio medico un attacco epilettico è la manifestazione comportamentale di una temporanea interruzione dell’attività elettrica neuronale.
Si presume che le cause di questa disfunzione siano da ricercare nel danneggiamento di alcune cellule nervose, la cui attività biochimica risulta alterata.
In linea con questo modello, alla base della farmacoterapia c’è l’idea che riducendo l’attività neuronale decrescerà anche la probabilità di attività epilettogena anormale.
Se invece analizziamo la situazione da un punto di vista comportamentale risulta evidente come i processi neuronali possano essere influenzati dal condizionamento classico e operante; tradotto, l’episodio epilettico può essere visto come una catena di eventi e come qualsiasi altro comportamento può pertanto essere influenzato.
Nello specifico, la crisi iniziale può essere vista come una risposta incondizionata a stimoli incondizionati interni e/o esterni e le convulsioni successive come risposte condizionate.
La crisi comiziale, appunto come qualsiasi altro comportamento, può essere influenzata da fattori di apprendimento e, in una certa misura, “disimparata”.
L’ipotesi alla base di questo modello è che l’individuo, tramite tecniche specifiche, diverrebbe in grado d’interrompere la catena di eventi che porta all’innescarsi della crisi.
Questo, rispetto alla tradizionale farmacoterapia, si presenta come un trattamento a ben più ampio respiro, includendo, oltre alla parte strettamente biochimica, il contesto dei fattori scatenanti, la funzione delle crisi e le emozioni associate.
Già nel 1977 Forster e Coll. avevano dimostrato che attraverso l’uso dell’apprendimento condizionato lo sviluppo delle crisi poteva essere modificato in modo predittivo; un attacco epilettico segue infatti uno schema specifico, consistente di fattori situazionali, emotivi e fisici.
Questo schema è innescato da uno stimolo discriminativo e controllato dalle sue conseguenze, come tanti altri comportamenti.
Questa risposta è seguita da un rinforzo positivo (avvicinamento a una condizione piacevole) o negativo (allontanamento da una condizione spiacevole), che intensifica la risposta comportamentale, nel nostro caso la crisi epilettica.
Ciò implica che, identificando la catena comportamentale, potremmo imparare come modificare un comportamento o sceglierne uno alternativo e quindi modificare la catena che porta all’insorgere della crisi.
Il circolo che ci troveremo davanti funzionerà così: tramite apprendimento condizionato, uno stimolo neutro presentato durante un attacco potrebbe condizionarsi in termini aversivi e configurarsi come stimolo attivante crisi future. Gli stimoli scatenanti esterni/interni possono essere pensieri, emozioni, ricordi e fattori ambientali. Un’emozione come la paura, per esempio, potrebbe essere condizionata a uno stimolo specifico, per esempio il primo segnale d’inizio di crisi e di conseguenza la sensazione di paura potrebbe aumentare la probabilità di insorgenza della crisi stessa (Hayes, Barnes-Holmes e Roche, 2001).
Per fare un esempio concreto, una ragazza che ha avuto un attacco epilettico in una situazione sociale in cui ha provato un forte imbarazzo, probabilmente visualizzerà questa scena imbarazzante all’idea di uscire nuovamente; ecco che la paura è appena diventata uno stimolo condizionato capace d’innescare crisi epilettiche.
In sintesi, un individuo che reagisca passivamente, ovvero con una riduzione di attività, avrebbe una maggiore probabilità di sperimentare crisi epilettiche rispetto a una persona che adotta modalità più attive; questo in virtù del fatto che una maggiore attività corrisponde a una maggiore eccitazione neuronale, sufficiente a bloccare questa diffusione elettrica abnorme (Fenwick a Brown, 1989).
Il trattamento si concentra in tre aree principali: interventi preventivi/predittivi, gestione dei sintomi e interventi riguardanti la funzione delle convulsioni (Ramaratnam, Baker e Goldstein, 2004).
In questa visione, ecco che l’ACT, una psicoterapia cognitiva di terza generazione, ha mostrato risultati davvero incoraggianti, rispetto ad altri interventi di supporto alla terapia farmacologica, come yoga o controllo dell’attenzione, nell’individuazione e gestione funzionale degli elementi core del disturbo epilettico.
Due studi randomizzati controllati hanno analizzato gli effetti di un intervento ACT, confrontandolo con altre terapie di supporto. Tutti i partecipanti avevano ricevuto una diagnosi di epilessia refrattaria ai farmaci, verificata tramite EEG. I partecipanti sono stati randomizzati in una delle due condizioni, ACT o terapia di supporto (ST). Gli effetti terapeutici sono stati misurati esaminando i cambiamenti nella qualità della vita e l’indice di crisi (frequenza x durata). Entrambe le condizioni di trattamento consistevano in sole nove ore di terapia distribuite in due sessioni individuali e due di gruppo, durante un periodo di quattro settimane.
Il gruppo sottoposto a trattamento ACT ha mostrato miglioramenti statisticamente significativi nel numero, nella durata e nella qualità delle crisi sperimentate, nel numero degli evitamenti esperienziali, nella percezione della qualità della vita e nel livello di funzionamento.
In conclusione, i risultati di questo studio suggeriscono che un programma di psicoterapia a breve termine, combinato con farmaci anticonvulsivanti, possa aiutare a prevenire gli esiti a lungo termine che si verificano a seguito di crisi epilettiche farmacoresistenti.
Bibliografia
Carrazana, E., DeToledo, J., Tatum, W., Rivas-Vasquez, R., Rey, G., Wheeler, S. (1999).
Epilepsy and religious experiences: Voodoo possession. Epilepsia, 40, 239-241
Cull, C., & Goldstein, L. H. (Ed). (1997). The clinical psychologist’s handbook of epilepsy.
New York: Routledge.
Wallace, S. J., & Farrell, K. (2004) Epilepsy in children (second edition) London, Arnold
Forster, F. M. (1977). Reflex epilepsy, behavior therapy and conditional reflexes.
Illinois: Charles C. Tomas.
Lundgren T, Dahl J, Melin L, Kies B. Evaluation of acceptance and commitment therapy for drug refractory epilepsy: a randomized controlled trial in South Africa–a pilot study. Epilepsia. 2006 Dec;47(12):2173-9.
Ramaratnam, S., Baker, G. A., Goldstein, L. H., Psychological tretments for epilepsy. (2004)
(Cochran Review). The Cochran Library, Issue 1, Chichester, UK: John Wiley & Sons, Ltd.
Hayes, S. C., Barnes-Holmes, D., & Roche, B. (2001). Relational Frame theory: a post
Skinnerian account of human language and cognition. New York: Kluwer Academic: Plenium.