di
niccolò Varrucciu
Da pochi giorni siamo entrati nella cosiddetta fase 2, un momento in cui il Paese strizza l’occhio alla riapertura, in cui si inizia a pensare a come ricominciare, a come “ritornare alla normalità, a come convivere col virus. Ma le persone come reagiranno? Come si comporteranno di fronte al pericolo?
In questa fase è assolutamente normale provare paura; dopo circa 3 mesi abbiamo imparato a sentirci al sicuro nelle nostre case, anche se la nostra libertà personale è stata fortemente limitata. Inizialmente, stare in casa era la novità, non poter uscire l’incubo. Adesso le cose si stanno invertendo e il pericolo è li che ci attende, pronto a colpire, non appena commettiamo un errore. Ma ancora, come si comporteranno le persone?
La logica deduttiva, forte dei dati, ci porterebbe a ipotizzare un atteggiamento iperprudenziale, dove le ipotesi di pericolo vengono vagliate attentamente e vengono ricercate le strategie più efficaci per ridurre la possibilità di contagio. Il buon senso suggerirebbe di indossare tutti i dispositivi di protezione, ridurre le uscite alle necessità essenziali, come procurarsi del cibo, curarsi o andare al lavoro, quando non sia possibile attivare la modalità telematica. E invece? Guardando il TG rimaniamo sbalorditi da cosa sta succedendo per le vie delle principali città italiane e per i vicoli dei piccoli centri: fiumane di persone stipate le une accanto alle altre con un unico obiettivo: svagarsi.
Allora consultiamo rapidamente l’archivio dei concetti e dei significati che abbiamo nella nostra mente, arriviamo alla lettera “S” di svago e ci domandiamo, ma è essenziale? Cambiamo cassetto dell’archivio, stavolta tocca alla lettera “A” di aperitivo, e ancora una volta ci domandiamo, è essenziale? A voi la vostra risposta ma, sempre ricorrendo al buon senso, ce ne vengono in mente delle altre.
Dato che siamo precisi ricontrolliamo, centinaia di migliaia di contagi, migliaia di morti, i nostri cari in pericolo: e allora cosa spinge le persone a uscire di casa per la “movida”?
Inizialmente, con dati incerti e poca conoscenza del virus, una parte della popolazione poteva incorrere in una sottovalutazione del rischio, reputandolo lontano da sé: quindi a che mi serve proteggermi se non rischio nulla?
Adesso la situazione è più chiara e togliendo i soliti e inevitabili complottisti, risulta chiaro che il pericolo c’è e non riguarda solo noi stessi, ma anche tutte le persone con cui veniamo a contatto, soprattutto quelle anziane e con precari stati di salute. Dall’altra parte abbiamo assistito anche a scene di panico, con scorte di cibo e materie prime degne della più letteraria delle guerre apocalittiche.
Ora però, ripeto, sappiamo tutto, abbiamo visto tutto (forse), ma nella bilancia delle nostre priorità, uno Spritz, non so bene con quanta consapevolezza, ha lo stesso peso della salute.
Possiamo provare a spiegare questo bizzarro accadimento (il recente comportamento delle persone) prendendo in prestito alcuni concetti chiave della psicologia sociale: la diffusione della responsabilità, la polarizzazione su comportamenti più rischiosi del gruppo rispetto al singolo e la dissonanza cognitiva.
Rispetto alla prima, mentre essere gli unici fuori ci mette di fronte in maniera chiara all’zione che stiamo compiendo e alle conseguenze che potrebbero esserci, l’effetto massa sfuma tutto ciò: subentrano pensieri tipo “se siamo così tanti significa che possiamo farlo, che non è grave”, oppure “anche se vado via io cosa vuoi che cambi”? Le persone sostanzialmente si danno manforte le une con le altre, probabilmente consapevoli che stanno facendo una cosa che non dovrebbero, ma incentivati dall’identico comportamento che un’altra persona, conosciuta o estranea, sta mettendo in pratica.
Un altro elemento da considerare riguarda le dinamiche di gruppo: è ormai noto da molti anni infatti come i comportamenti di una persona all’interno di gruppo si attestino su livelli di pericolosità maggiori rispetto a quelli della stessa persona mentre agisce singolarmente.
Inoltre, in un gruppo ci sono aspettative condivise di come dovrebbero comportarsi i membri, specifici pensieri e comportamenti da seguire in modo pedissequo. Chi deraglia dal binario rischia, in buona sostanza, l’allontanamento.
Ultimo elemento che prendiamo in considerazione, in questa parziale analisi della ripartenza, è la dissonanza cognitiva, ovvero cognizioni o pensieri antitetici e in contrasto tra loro, fino a creare molto disagio. Per questo le persone tendono generalmente a ricercare, anche qui non sempre in modo consapevole, una certa dose di coerenza cognitiva. Quindi un pensiero come “il virus sta andando via, riapriamo il paese” non può stare insieme con “ho paura mi chiudo in casa”, così come “voglio uscire a svagarmi” non può stare insieme con “questa situazione è una molto grave in cui io o le persone a cui voglio bene potremmo perdere la vita”. Pertanto, a seconda della “strada che sceglierò, sposando alcune credenze specifiche, adotterò un pattern comportamentale coerente.
In conclusione, le credenze che adotterò, quanto sentirò la responsabilità come elemento personale o come entità diffusa o il gruppo a cui appartengo o in cui voglio assolutamente entrare sono elementi che possono contribuire a spiegare come siamo passati dai saccheggi dei supermercati agli aperivirus, almeno apparentemente, con estrema facilità.
BIBLIOGRAFIA
- Bordens and Horovitz, “Social psychology”.
- Festinger, L. (2001). Teoria della dissonanza cognitiva. Franco Angeli
- Darley, J.M. & Latané, B. (1968). Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsibility. Journal of Personality and Social Psychology, 8(4), 377-383.
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