di
Silvia Timitilli
Negli anni, all’interno del vasto panorama della “violenza intrafamiliare”, fenomeni come il maltrattamento infantile, la violenza coniugale e la violenza assistita sono usciti dal cono d’ombra della vergogna e del silenzio e sono stati oggetto di campagne mediatiche e di intervento, acquisendo una dignità non solo come “fatti di cronaca” ma anche come realtà cliniche e scientifiche.
All’interno dell’universo della violenza intrafamiliare esiste, però, un altro fenomeno che prende il nome di “violenza filio-parentale” e che consiste in maltrattamenti reiterati messi in atto dal figlio nei confronti dei propri genitori.
Si tratta di un fenomeno ancora oscuro e poco studiato e i motivi di questa scarsa attenzione sono molteplici. All’interno di queste famiglie, infatti, prevale un atteggiamento di sottostima della effettiva gravità di certi comportamenti, per cui i genitori-vittime tendono a minimizzare le condotte violente del figlio. Tale tendenza alla minimizzazione da parte del genitore trova ragione in un’emozione che gioca un ruolo chiave in questo fenomeno, ovvero la vergogna. È in virtù dell’intrecciarsi di questi fattori, dunque, che solo i casi più gravi ed estremi giungono all’attenzione della cronaca, delle autorità e dunque degli esperti, in modo tale che emerga solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto complesso e su cui vige un atteggiamento di omertà, soprattutto da parte delle vittime stesse, i genitori, che si vergognano dal momento che ritengono di essere la causa stessa del fenomeno, considerato un fallimento dell’intero sistema familiare.
I principali studi che hanno affrontato in modo sistematico e rigoroso questo tema sono stati condotti da Roberto Pereira Tercero e dal suo gruppo di lavoro, che opera all’interno della realtà spagnola, in cui si è assistito ad un aumento esponenziale delle denunce di fenomeni ascrivibili a questo tipo di violenza (Pereira, 2006).
Appare legittimo chiedersi se la violenza filio-parentale sia un fenomeno ascrivibile esclusivamente alla società spagnola oppure se abbia un senso occuparsene anche nel contesto italiano. Per tentare di rispondere a tale interrogativo, un primo passo fondamentale è cercare di comprendere in cosa consista questo fenomeno.
Violenza Filio-Parentale: un tentativo di definizione e descrizione del fenomeno
Per Violenza Filio-Parentale (VFP) si intende un insieme di condotte reiterate di aggressioni fisiche (colpi, spintoni, lancio di oggetti), verbali (insulti ripetuti, minacce) o non verbali (aggressioni, rottura di oggetti preziosi) nei confronti dei genitori o nei confronti di adulti che ne fanno le veci (Pereira, 2006).
Gli autori di questi tipi di comportamenti sono ragazzi o ragazze appartenenti a qualsiasi fascia di età, con una frequenza maggiore di questi comportamenti durante l’adolescenza. Si tratta di giovani apparentemente “normali”, che mostrano comportamenti adeguati in altri contesti diversi da quello familiare e che provengono da famiglie appartenenti alle diverse classi socio-economiche, senza distinzione. Le condotte violente, più o meno prolungate che siano, vengono sempre attuate all’interno dell’ambito familiare e molto spesso sono circoscritte esclusivamente a questo contesto (Pereira e Bertino, 2010).
Le vittime sono gli adulti di qualsiasi età e genere, responsabili della loro educazione anche se è più frequente che si tratti di genitori anziani in famiglie monoparentali e tali condotte vengono effettuate con maggiore frequenza nei confronti delle madri che non dei padri (Callagher, 2004; Ibabe, 2007).
Si tratta di una forma di violenza che si sviluppa seguendo un crescendo: inizia abitualmente con insulti e squalifiche, per passare a minacce e rottura di oggetti preziosi per il genitore, per concludersi, infine, con la messa in atto di aggressioni fisiche sempre più gravi che richiedono l’intervento delle autorità. È un processo che può durare anni e non prevede una regola di stop: la violenza cresce progressivamente e non si arresta neppure quando si raggiunge una sottomissione assoluta del genitore, un pieno dominio e controllo dovuto al terrore (Sluzki, 2002).
Processi cognitivi, emotivi e interpersonali alla base del fenomeno
L’attuazione della VFP condivide con le altre forme di violenza intrafamiliare il perseguimento dello scopo, da parte dell’autore di questi atti, di ottenere il controllo e il potere all’interno della famiglia. Nella violenza filio-parentale, in particolare, il perseguimento del controllo tramite la violenza risulta strumentale al raggiungimento di altri obiettivi, come per esempio ottenere una maggiore libertà.
Alla luce della presenza di uno scopo attivo di conquista del potere, è possibile comprendere come non sia appropriato considerare violenza filio-parentale una manifestazione occasionale di violenza, senza episodi antecedenti e che non si ripete. Infatti non rientrano nel fenomeno descritto i casi di parricidio, che presentano caratteristiche particolari e che spesso consistono in un episodio unico e che non ha avuto precedenti.
Non rientrano nel fenomeno nemmeno le condotte “aggressive” che si distinguono dalle condotte “violente” in quanto prive di intenzionalità di fare del male all’altro, intenzionalità che è invece inequivocabilmente ritracciabile nella condotta dell’individuo violento. In base a questo principio sono dunque escluse quelle forme di aggressività che si manifestano in uno stato di grave alterazione della coscienza (es. autismo, schizofrenia, grave ritardo cognitivo, ecc.) (Pereira, 2015).
All’interno della famiglia dove viene perpetuata questa forma di violenza sembra essere messa in discussione la gerarchia che regge il funzionamento della famiglia stessa.
Tipicamente il potere all’interno di una famiglia sembra essere attribuito tramite una gerarchia di potere sociale automatizzata, in cui cioè i ruoli di rapporto sociale (“genitore”-“figlio”) assegnano i poteri di “influenzamento” dell’altro (comando), che non dipendono dunque dalle caratteristiche “personali” di chi li riveste, ma derivano dall’investitura del ruolo. Si tratta di gerarchie in cui non si specifica più per quali ragioni o per quali sue caratteristiche “X ha più potere rispetto a Y”, ma semplicemente “X ha potere su Y in quanto riveste quel determinato ruolo” (Castefranchi, 1988) e dunque il genitore ha potere di comando sul figlio in veste del suo ruolo di “genitore”, senza che le caratteristiche di tale ruolo vengano esplicitate sia a chi lo esercita sia a chi lo subisce.
Nelle famiglie in cui il figlio diviene sistematicamente violento, giungendo a sottomettere completamente il genitore, si assiste a un progressivo ribaltamento della gerarchia e dunque del rango sociale. Il potere del figlio non potrà però basarsi su un’investitura di potere legata al ruolo, perché questo riconoscimento non è previsto dalla società, per cui dovrà basarsi su un altro parametro, quello del terrore appunto. In virtù di un potere non riconosciuto socialmente, ma acquisito tramite il ricorso alla violenza, appare piuttosto intuitivo comprendere come mai non sussista una “regola di stop” e come mai si assista ad un’escalation di violenza che si arresterà solo con l’intervento di un altro potere forte e socialmente riconosciuto, ovvero il potere dell’Autorità dello Stato. Chi può infatti garantire al figlio che il suo regno basato sul terrore duri in eterno? Solo la continua e costante sottomissione del genitore potrà fornirgli tale conferma e dunque dovrà essere di tanto in tanto sottoposta a verifiche sempre più accurate.
In questo complesso fenomeno, accanto alla figura del figlio-violento, abbiamo la figura del genitore-vittima, che con il suo comportamento manterrà, in maniera del tutto involontaria, la condotta disfunzionale del figlio.
Un primo processo che entra in gioco è la tendenza a minimizzare i comportamenti del figlio, liquidandoli come “non gravi” e in qualche misura comprensibili e dunque “giustificabili”. Tali valutazioni da parte del genitore lo portano a mettere in atto un “non-comportamento”, ovvero non interverrà per ristabilire i ruoli e, implicitamente, avvallerà tali condotte disfunzionali del figlio e dunque la presa di potere da parte di quest’ultimo.
Un altro processo di mantenimento di questo fenomeno è rappresento dall’emozione di vergogna che il genitore-vittima sperimenta dinnanzi a questa situazione. Il genitore-vittima prova vergogna perché si percepisce inadeguato rispetto al ruolo di genitore che ritiene avrebbe dovuto invece essere in grado di svolgere. Denunciare a terzi il comportamento del figlio implica rendere palese a terze figure queste sue mancanze, esporsi al rischio di essere giudicato negativamente da loro e dalla società più in generale e dunque sperimentare, in misura ancora maggiore, vergogna e sofferenza (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2002). La soluzione che viene dunque adottata è quella di continuare a sopportare in silenzio, cercando di preservare la propria immagine sociale di genitore, di conseguenza la propria auto-immagine e, non ultima, l’immagine sociale della propria famiglia.
I meccanismi fin qui descritti ci aiutano a comprendere il fenomeno del mantenimento della segretezza, caratterista fondamentale anche di questo tipo di violenza intrafamiliare, che consiste nella negazione del problema e nel tentativo disfunzionale di proteggere il figlio dalle conseguenze negative derivanti da un’eventuale denuncia, cosicché le famiglie giungono a tollerare alti livelli di aggressività prima di prendere misure adeguate, come chiedere aiuto (Perez, Pereira, 2006).
Considerazioni conclusive
La presente analisi non ha la pretesa di essere una descrizione esaustiva del fenomeno della VFP, ha piuttosto l’obiettivo di intraprendere una prima riflessione su questa complessa realtà, che potrebbe riguardare la società italiana così come caratterizza quella spagnola e di altre culture. Il crescente numero di casi di cronaca ascrivibili a tale fenomeno potrebbe infatti costituire un segnale della presenza di questa realtà anche nel nostro Paese.
Favorire una maggiore conoscenza del fenomeno potrebbe essere utile per normalizzarlo, portarlo alla luce e studiarlo, affinché non emerga soltanto “la punta dell’iceberg”, favorendone una maggiore comprensione, ma soprattutto costruire la possibilità di fornire un aiuto e un sostegno a quelle famiglie ormai intrappolate nella morsa del terrore e della vergogna.
Riferimenti bibliografici:
Castelfranchi, C. (1988). Che figura. Emozioni e immagine sociale. Il Mulino, Bologna
Catelfranchi, C.; Mancini, F.; Miceli, M. (2002). Fondamenti di cognitivismo clinico. Bollati Boringhieri, Torino
Pereira, R. (2015). Psicoterapia della violenza filio-parentale. Protocollo di intervento. Psicobiettivo, 155-170.
Pereira, R. (2006). Violencia filio-parental. Un fenómeno emergente. Mosaico, 36, 8-9
Perez, T.; Pereira, R. (2006). Violencia filio-parental. Revisión de la bibliografia. Mosaico, 36, 10-17