di
Silvia Timitilli
Essere realistici e razionali sono spesso caratteristiche che attribuiamo alle persone sagge, quegli individui che sembrano rappresentare l’emblema del benessere psicologico, capaci di fronteggiare ogni situazione problematica senza farsi travolgere da essa. Questa convinzione così diffusa trova in parte le sue radici nella psicologia, in particolare nella corrente nota come “cognitivismo” che dalla sua fondazione, risalente agli anni ’60, ha evidenziato i benefici psicologici derivanti da un’analisi razionale della realtà.
Il cognitivismo clinico tradizionale, che vede in Beck ed Ellis i suoi fondatori, sostiene che la sofferenza psicologica sia dovuta alla presenza, nella mente della persona, di credenze false e di processi cognitivi irrazionali. Seguendo tali presupposti teorici, l’intervento psicoterapeutico dovrebbe consistere nell’individuare le credenze disfunzionali e le distorsioni di pensiero, renderne l’individuo consapevole e aiutarlo a sviluppare credenze più adese alla realtà e ragionamenti più razionali. In estrema sintesi, dunque, essere realistici e seguire i principi della logica formale (garanzia di un processo di ragionamento formalmente corretto) dovrebbero essere gli ingredienti basilari del nostro benessere psicologico.
L’osservazione clinica e la ricerca psicologica, però, hanno messo in evidenza come tale assunto non sia poi così veritiero.
Ad esempio, un paziente con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) con compulsioni di lavaggio ha in effetti ragione a ritenere che non si possa escludere con certezza che sulla maniglia della porta di un bar ci siano tracce di escrementi; effettivamente è una possibilità che non può essere esclusa con certezza. Del resto non è raro che le persone non si lavino le mani dopo aver orinato e che con la mano contaminata tocchino la maniglia della porta. Sono i non ossessivi, al contrario, a sopravvalutare illusoriamente la purezza degli oggetti che toccano.
Allo stesso modo, le ricerche sul ragionamento comune (Alloy e Abramson 1982, 1988; Girotto 1994; Paranzella et al. 1999) hanno dimostrato non solo che gli errori cognitivi sono commessi anche dai soggetti sani, ma che le persone depresse ne presentano in numero minore rispetto ai sani quando processano eventi di risultati positivi (realismo depressivo).
Nell’esperimento di Alloy e Abramson, ad esempio, gli autori cercarono di dimostrare le differenze di consapevolezza tra i soggetti affetti da depressione e quelli non affetti. L’esperimento era strutturato nel modo seguente: i partecipanti erano introdotti in una stanza e condotti davanti a una postazione su cui sopra vi era un pulsante; veniva poi chiesto loro di premere il pulsante al fine di accendere una lampadina e di capire in che misura il gesto di premere il pulsante fosse collegato effettivamente all’accensione della stessa. In realtà, nessuno dei partecipanti ne era però a conoscenza, il pulsante non era affatto collegato con l’accensione della lampadina. L’esperimento dimostrò come i soggetti depressi fossero molto più abili nel comprendere che non vi fosse alcun nesso causale tra gesto e accensione, a differenza dei soggetti non depressi che invece tendevano a pensare di avere un controllo sull’accensione della luce molto maggiore. Questo esperimento aprì quindi le porte all’ipotesi che i pazienti depressi avessero una maggiore comprensione della realtà, e quindi una visione più realistica.
Un altro esempio, tratto sempre dalla ricerca, è rappresentato dal Wason Selection Task (WST), un esperimento in cui si evidenzia come la gran parte dei soggetti cerchi comunemente le conferme e non le controprove delle eventualità presentate, violando dunque i principi della logica formale. Nell’esperimento, ideato da Wason nel 1966, si presentano al soggetto 4 carte disposte nel modo seguente: E, F, 4, 7. Ogni carta ha su una faccia una lettera e sull’altra un numero. I soggetti sono invitati a mettere alla prova la validità della seguente ipotesi effettuando solo le verifiche strettamente necessarie: “se una carta ha una vocale su un lato, deve avere anche un numero dispari dall’altro”. La maggior parte dei soggetti si limitava a girare solo la carta E, mentre solo una minoranza girava anche la carta 7. La spiegazione di tale prestazione modesta è che la maggior parte delle persone tende a verificare le ipotesi andando alla ricerca di una loro conferma e non attraverso la loro falsificazione.
Si tratta di un esempio di come la mente umana compia degli errori logici sistematici con frequenza costante in tutta la popolazione generale, per cui è possibile dedurre che gli esseri umani non ragionino ricercando la verità.
Non sono la verità o falsità delle credenze, dunque, a fare la differenza tra psicopatologia e normalità. Processi cognitivi formalmente irrazionali si ritrovano tanto nella sanità mentale quanto nella psicopatologia.
Alla luce di quanto evidenziato negli esperimenti citati, se si utilizzassero i criteri della logica formale e del calcolo delle probabilità, come accade nelle teorie normative del ragionamento, potremmo affermare che l’uomo sia un essere irrazionale: secondo tale approccio, se le performance cognitive si discostano dalle prestazioni attese in base alle regole della logica aristotelica e del ragionamento probabilistico, allora si è in presenza di un pensiero irrazionale. Dal momento, però, che gli errori logici sono all’ordine del giorno e non discriminano tra soggetti sani e non, allora i criteri per definire razionale una prestazione cognitiva non possono essere quelli delle teorie normative.
Baron (2000), nella sua Teoria Pragmatica della Razionalità, propone di disgiungere la razionalità dall’applicazione dei principi formali della logica o del calcolo probabilistico: una conclusione inferenziale, sebbene si discosti dai principi formali, può a particolari condizioni risultare ugualmente ragionevole o funzionale. Ciò, infatti, che rende razionale o meno uno specifico ragionamento non è la sua aderenza alle regole formali del pensiero, ma la sua utilità pratica: se l’inferenza consente il raggiungimento degli scopi del soggetto, va considerata razionale, anche se si discosta dai principi della logica formale.
Baron individua quattro criteri che definiscono il buon pensiero:
- formulare più ipotesi alternative;
- cercare informazioni dirimenti oltre a quelle che confermano l’ipotesi;
- utilizzare in modo funzionale il tempo e le risorse per la fase 1 e 2 (né troppo, né troppo poco);
- avere una giusta fiducia nelle proprie conclusioni, mantenendo una giusta distanza critica.
Come differenziamo allora la normalità dalla psicopatologia? In altre parole…cosa ci fa soffrire?
Il mancato rispetto dei principi baroniani del ragionamento fa in modo che la persona permanga in atteggiamenti, condotte e stati d’animo nocivi. Tale persistenza è disadattiva, specie in quei casi in cui per l’individuo sarebbe possibile e utile cambiare atteggiamento.
Nei casi patologici, il soggetto dunque:
- effettua un esame limitato dei fatti, con una ricerca incompleta di informazioni e dati trascurando ipotesi alternative, pur avendo tempo disponibile e rischiando di pagare costi limitati per tale ricerca di informazioni;
- non considera ipotesi alternative e ricerca solo evidenze compatibili con la sua ipotesi;
- ha un’eccessiva fiducia nella veridicità delle proprie conclusioni, anche se queste derivano da un esame limitato dei fatti e da una ricerca troppo frettolosa e sbrigativa;
- oppure pensa troppo a lungo prima di decidere, così da pagare costi spropositati rispetto alla posta in gioco.
Per approfondimenti:
Mancini F. (a cura di) (2016). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Mancini, F. (2016). Sulla necessità degli scopi come determinanti prossimi della sofferenza psicopatologica. Cognitivismo Clinico, 13, 1, 7-20.
Perdighe, C.; Gragnani A. (a cura di) (2021). Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Perdighe C. e Mancini F. (a cura di) (2010). Elementi di Psicoterapia Cognitiva. Giovanni Fioriti Editore.
Rainone A. e Mancini F. (a cura di) (2018). La mente depressa. Franco Angeli.