di Niccolò Varrucciu
Il sonno, al pari di tante altre condizioni, è stato identificato come deficitario e conseguentemente trattato in sindromi molto diverse tra loro, come la schizofrenia, il disturbo bipolare, le nevrosi, le tossicodipendenze e le malattie psicosomatiche. Dalla letteratura l’area nevrotica risulta trarre un maggior beneficio rispetto a quella psicotica; Pavlov e i suoi collaboratori applicarono le terapia del sonno ai disturbi psicosomatici come la colite ulcerosa e l’ipertensione arteriosa, mentre Charcot e altri profusero notevoli risorse nelle terapie da sonno ipnotico prolungato. Recentemente Klaesi e coll. hanno utilizzato il sonno prolungato per interrompere gli switch dell’umore in pazienti definiti “psicotici agitati”.
Oggi, nell’era delle neuroscienze, in cui il cervello diventa sempre più una finestra cui affacciarsi, sono molte le componenti da considerare quando si voglia interfacciarsi con questa tematica. Fondamentale risulta un’accurata valutazione del paziente, che consti di componenti cliniche e testistiche; questo permetterà di diventare consapevoli, monitorare e modificare gli aspetti biofisiologici e gli ingredienti cognitivi. Rispetto alla comorbilità psichiatrica molti studi hanno evidenziato le numerose interazioni con i disturbi psichiatrici di asse I, come ansia, depressione ecc…e i disturbi di personalità, derivanti dalla strutturazione nelle persone di tratti disfunzionali stabili; in tal senso la ricerca sta ancora cercando di chiarire la possibile funzione dell’insonnia come fattore di rischio per alcuni disturbi, soprattutto riguardanti il tono dell’umore.
Un’altra faccia di questa condizione tanto complessa è quella delle mispercezioni del sonno, ovvero l’errata percezione dei fattori contestuali all’evento sonno, come oscurità, pochi indizi temporali, preoccupazioni di non dormire con relative credenze patogene, attenzione selettiva su segnali interni o esterni, fattori fisiologici, ecc.
Rispetto ai segnali che dovrebbero orientare la nostra propensione all’addormentamento, la letteratura internazionale evidenzia sbadigli, blinking, difficoltà a tenere gli occhi aperti, difficoltà di concentrazione, stanchezza e sonnolenza; alcuni studi hanno però evidenziato come i cattivi dormitori spesso ignorino tali segnali, decidendo di andare a dormire sulla base di elementi completamente esterni, come l’orario.
La naturale quanto scongiurata conseguenza è un disallineamento fra propensione fisiologica all’addormentamento e decisione fattiva di andare a dormire, la quale, con il passare del tempo, si configura come pericoloso fattore di mantenimento del disturbo.
Le conseguenze dell’insonnia possono essere piuttosto gravi. Può causare incidenti, malumori, difficoltà nel lavoro, nelle relazioni personali e affettive, oltre a problemi di memoria, attnzione, maggiore irritabilità, priblemi del sistema immunitario eccc… Ma i danni non finirebbero qui, infatti, risulterebbe notevolmente incrementato il rischio suicidario nei disturbi dell’umore, nel Disturno Post Traumatico da Stress (DPTS) e nella schizofrenia, dove il tasso crescerebbe addirittura di 12 volte.
Entrando nel merito della struttura del sonno di alcuni dei disturbi sopraelencati, l’esame polisonnografic, mostra alterazioni particolari del tracciato nel DPTS, con difficoltà di addormentamento e della veglia infrasonno, sonno superficializzato e aumento del sonno REM. La spiegazione sarebbe, almeno in parte, nella ridotta attività delle amine e nell’iperattivazione del sistema colinergico, che regola le cellule REM-on. Altri studi, effettuati su ratti adulti, avrebbero evidenziato addirittura come la mancanza di sonno stressi a tal punto l’attività cerebrale da ridurre la neurogenesi.
Per una condizione tanto complessa da vari punti di vista, biologico, clinico, fenomenologico e ambientale, è assolutamente necessario un trattamento disegnato sul paziente. Le linee-guida internazionali ormai da anni individuano la terapia cognitivo – comportamentale (TCC) come il trattamento d’eccellenza per questo tipo di condizione, talvolta associato con una psicofarmacoterapia.
Fra i farmaci di più frequente utilizzo troviamo benzodiazepinici a breve emivita, antidepressivi SSRI e antipsicotici di seconda generazione.
La psicoterapia cognitiva è risultata egualmente efficace sia in contesti di gruppo (4-6 pazienti sottoposti a incontri settimanali per 5 settimane consecutive) sia individuali. Il protocollo si compone delle seguenti fasi: igiene del sonno e psicoeducazione, ristrutturazione cognitiva, restrizione del sonno e controllo degli stimoli. Al posto di queste ultime due fasi possono essere introdotti rilassamento e training immaginativo, a seconda della tipologia di paziente. Dobbiamo infatti cercare di disegnare l’intervento sulle caratteristiche della persona, in modo da massimizzare l’efficacia e minimizzare gli abbandoni precoci.
Dopo aver costruito una solida alleanza terapeutica, fattore assolutamente trans-diagnostico, si passa alla fase della psicoeducazione del circolo vizioso dell’insonnia, in cui viene spiegato come, dal momento in cui si mette a letto, magari sotto l’effetto di sostanze (fumo o alcol), la persona inizi a ripensare alle attività giornaliere o pianificare quelle future; ciò porta a un’iperattivazione fisiologica e mentale che “forza il sonno”, innescando la paura di non riuscire più ad addormentarsi e delle relative conseguenze. Il soggetto si trova così bloccato in questo specifico stato mentale in cui addormentarsi risulta impossibile.
Fin dalle prime fasi della terapia e parallelamente alla altre s’inizia la compilazione del diario del sonno, in cui annotare variabili specifiche come orario di addormentamento o numero di risvegli notturni e del diario della sera, in cui si valutano con una scala likert le conseguenze diurne dell’insonnia. Nelle sedute successive i pazienti si dedicano al controllo dello stimolo, in cui si tenta di estinguere l’associazione fra letto e attività incompatibili con il sonno e alla restrizione delle ore di sonno, oppure imparano un protocollo di rilassamento ibrido, dove non è necessaria la tensione delle parti del corpo, e la visualizzazione del posto sicuro, una tecnica in cui s’inducono stati di calma e serenità. L’ultima seduta è dedicata alla prevenzione delle ricadute.
I risultati sono più che incoraggianti, con una percentuale di successi terapeutici che supera il 60%: nello specifico risulterebbero significativamente migliorati il tempo addormentamento e dei risvegli, le ore complessive di sonno, la qualità del sonno, le conseguenze diurne, le credenze disfunzionali, la gravità percepita dell’insonnia e le manifestazioni di ansia e depressione.
In conclusione, clinici e ricercatori dovranno operare sempre più in sinergia per mettere a punto protocolli brevi ed efficaci da integrare nei sistemi di trattamento primari attualmente disponibili. Una diffusione maggiore di questo protocollo permetterebbe infatti di renderlo ancora più efficace e di modificarlo in maniera specifica alla tipologia di paziente, alzando ulteriormente i tassi di successo, di per sé molto alti.